Anna e Bianca: l’emergenza raccontata in prima persona
Siamo due soccorritrici volontarie dell’associazione EMS (emergenza milano soccorso), e come tanti altri operatori sanitari stiamo affrontando personalmente l’emergenza covid 19. In questo momento stiamo vivendo insieme, lontane dalle nostre famiglie per evitare i contagi e per farci compagnia nell’affrontare questa situazione.
Fin dal principio, questa situazione ci ha scosso su diversi fronti. Abbiamo iniziato da un giorno all’altro a dover utilizzare nuovi dispositivi di protezione individuale, ad adottare nuovi protocolli e a seguire le indicazioni dell’Areu che cambiavano di settimana in settimana. E’ cambiata la tipologia di servizi, ci sono sicuramente meno incidenti stradali ma incontriamo un numero infinito di anziani con gli stessi sintomi: febbre, tosse e problemi respiratori. Ormai la maggior parte delle chiamate arrivano come sospetti covid: noi entriamo nelle case, tutti coperti, valutiamo i pazienti, forniamo ossigeno se necessario e in base alla gravità e ad altri fattori decidiamo se lasciarli a casa o portarli in ospedale. La cosa che però sin dall’inizio ci ha colpito di più forse è stato l’impatto emotivo e psicologico che la pandemia ha avuto sulle persone. Ormai ogni servizio è un continuo ripetersi di saluti, di addii e di gesti che si trattengono per la paura. Sono padri, figli, coppie separate all’improvviso dal virus che non possono seguire i propri cari, che non sanno se li rivedranno, che ci chiedono come poterli contattare.
Non ci si abitua mai alla morte e alla sofferenza, ma sono cose che già ci era capitato di incontrare in ambulanza. Quello per cui non eravamo preparate è la paura, l’angoscia e la solitudine che toccano e trascinano tutti. Vogliamo raccontare due episodi che ci hanno particolarmente colpito.
Anna
Ci chiamano in rosso cardiocircolatorio per un uomo di 73 anni. Appena arriviamo sul posto, la moglie ci apre la porta, entriamo in casa e troviamo suo marito a terra. Dopo un’immediata valutazione, constatiamo che l’uomo è in arresto cardiocircolatorio e iniziamo le manovre di rianimazione. Attiviamo il dae, iniziamo le compressioni toraciche, finchè dopo quindici minuti, arriva l’auto medica che dichiara il decesso del paziente. Bastano quelle parole del medico per passare da un momento dinamico pieno di adrenalina e concentrazione, a un silenzio gelido e profondo. Ci allontaniamo dal corpo per permettere alla moglie di avvicinarsi, lei si precipita in lacrime, e accasciandosi su di lui inizia a baciarlo. Sistemiamo il materiale nella maniera più discreta possibile e intanto il medico si rivolge al figlio per spiegargli le varie questioni burocratiche (pompe funebri, certificati..). Questo, in lacrime ma abbastanza lucido da ascoltare, lo interrompe per dirgli che vorrebbe abbracciare sua mamma in quel momento, ma la paura del contagio glielo impedisce. Il medico, stupito, gli risponde: “Puoi anche darglielo un abbraccio…”, ma lui non se la sente, e continua a mantenere una certa distanza con la mascherina in volto. Una volta finite le procedure previste, adagiamo il corpo sul letto, facciamo le condoglianze ai famigliari e ce ne andiamo.
Tornata a casa, non ho fatto altro che pensare non tanto al servizio in sé, bensì alla reazione del figlio, di cui non riuscivo a capacitarmi. Mi è sembrata una scena assurda, che decontestualizzata potrebbe definirsi disumana: la paura del virus prevarica su un abbraccio a una madre che ha appena perso il marito. Ho affrontato questo servizio quando ancora la quarantena non era iniziata, ma questo episodio è stato comunque un forte campanello di allarme di come la paura e l’ansia che caratterizzano questa pandemia possano dominare sentimenti naturali e affettivi come quello di un figlio verso i propri genitori.
Bianca
Durante un turno ci chiamano in giallo psichiatrico per un uomo di 45 anni. Era andato a vivere con i suoi genitori per aiutarli, quella sera si ubriaca e scrive alla fidanzata che vuole suicidarsi. Ha un’azienda con dei dipendenti, ha paura che fallisca, di dover lasciare a casa persone che confidano in lui, che hanno bisogno di uno stipendio. In casa troviamo la polizia, suo padre che piange, sua madre che continua ad urlare e lui che non si regge in piedi. Prendiamo i parametri, gli chiediamo se vuole venire in ospedale per parlare con qualcuno, ma lui non vuole. Non possiamo fare nulla, quindi ce ne andiamo assicurandoci che rimanga sempre accompagnato. Dall’inizio della quarantena mi è capitato più volte di assistere a casi simili. Persone che non avevano precedenti e che d’un tratto erano diventate un pericolo per loro stesse. Mi colpisce perché questo virus ha avuto un impatto più duro sugli individui più fragili della società, ma non solo fragili a livello sintomatico, quindi anziani ed immunodepressi, ma anche a livello psicologico. Tutti abbiamo vissuto momenti di angoscia e paura, ma non tutti siamo in grado di affrontarli allo stesso modo.
Davanti a questa situazione così drammatica sorge la domanda sul senso del nostro contributo. Le ragioni per cui continuiamo a fare turni sono le stesse di prima, ovvero per aiutare concretamente persone che hanno bisogno. Sappiamo di non poter fare tanto, ma ci rendiamo conto che nel momento in cui lo incontriamo, il paziente è in una situazione di fragilità, sofferenza e paura, e tale instabilità lo porta ad essere sensibile a tutto ciò che lo circonda, anche a piccoli gesti insignificanti. Per questo il semplice modo con cui ci rivolgiamo al paziente, con cui gli poniamo le domande per valutarlo o con cui gli chiediamo di offrirci il braccio per misurare la pressione, per lui possono essere molto significativi, anche se non risolveranno i suoi problemi.
Ed è questa maggiore attenzione al paziente che ci educa a dare un nuovo valore ai piccoli gesti, che nella loro semplicità possono fare la differenza per chi ci sta davanti, che in un momento può essere il paziente, in un altro la tua coinquilina a cui prepari la cena, o i genitori che chiami alla sera.