Il diritto di rischiare
La quotidiana alternativa fra uno spazio per tutti e uno per me
Una mattina come tante altre: non hai sentito la sveglia, sei uscito di corsa, hai preso la metro per un pelo, ma come previsto arrivi in ritardo a lezione. Ti siedi dove capita: un posto esterno in ultima fila. Da quando è iniziata la Magistrale l’aula è piena di gente mai vista, facce nuove di cui non sai nulla. Vengono davvero da ogni parte del mondo.
Quello seduto a fianco a te stringe le sue cose per farti spazio. “Tranquillo – gli dici – Ci sto”. Poi lo guardi meglio, ha la pelle un po’ scura, forse non parla italiano. Non sapresti dire da dove viene e per non sbagliare abbozzi un sorriso casuale mentre tiri fuori il tuo quaderno. Lui risponde con un sorriso altrettanto casuale… Non ti è ancora chiaro se capisca o meno l’italiano. La lezione è in inglese ed è già iniziata da almeno mezz’ora, quindi sbirci sul suo foglio per capire quanto spazio lasciare. A un certo punto arriva la pausa: ti guardi intorno, tiri fuori il cellulare… In realtà ti servirebbero gli appunti di quello che ha spiegato il prof mentre tu eri in metro. Che fai, li chiedi al tuo vicino? Ma in che lingua gli parli, poi? Lo guardi meglio: sì, è scuro, ma magari è italiano. E se poi si offende se gli parli in inglese? Decidi che non ha senso farsi troppe paranoie, metti via il telefono e ti giri verso di lui con sguardo amichevole e tono incuriosito: “My name is Marco, where are you from?” È sbagliato fare questa domanda? Durante le nostre giornate in università incrociamo moltissime persone, ognuno con le proprie origini, la propria storia, le proprie idee. Della maggior parte di loro non sappiamo niente. Fino a che punto possiamo spingerci nel rapportarci con loro?
Quanto possiamo rischiare?
Qualche anno fa sul sito ufficiale della University of California è stato pubblicato un documento appositamente pensato per risolvere tutti i dubbi come questo: una lista delle espressioni da evitare per non trovarsi mai in situazioni spiacevoli. Si tratta delle cosiddette “microaggressioni”, una categoria che racchiude tutti quei gesti o quelle frasi che, a prescindere dalle intenzioni, potrebbero risultare offensivi per determinati gruppi di persone. “Where are you from?” fa parte di queste. Con una domanda del genere infatti si suppone implicitamente che l’interlocutore sia straniero e quindi non un vero americano, affermazione che potrebbe ferire la sua sensibilità. Sembrerà strano ma è partita proprio dagli studenti la richiesta di introdurre regolamenti che evitino l’impatto con idee e opinioni diverse dalle proprie, regole che permettano di rinchiudersi in uno spazio sicuro, un safe space, dove tutti la pensino allo stesso modo e nessuno possa mai ricevere domande scomode. Questa iniziativa fa ancora più effetto se si pensa che il primo emendamento della Costituzione americana è quello per la libertà di parola, che in questo modo viene profondamente negata. E non si sta parlando di censurare solo le domande sulla vita degli altri: insieme alle microaggressioni e per proteggersi da queste, sono stati coniati i trigger warnings. Si tratta di avvertimenti che ogni docente dovrebbe dare alla propria classe prima di esporre argomenti o concetti particolarmente delicati che potrebbero, per diversi motivi, risultare troppo violenti per coloro che ascoltano la lezione. Come quando prima di un film si segnala che i contenuti trasmessi richiedono l’accompagnamento di un adulto, solo che invece che al cinema siamo in università e abbiamo almeno una ventina d’anni. Sono compresi in questa categoria tutti quegli aspetti drammatici della vita, che per esempio vengono espressi e a volte esaltati nella letteratura e nel teatro. Scene di stupro o suicidio descritte all’interno di un’opera sono state denunciate come troppo aggressive, ma pensando alla tragedia greca o a Shakespeare è chiaro come escludere categoricamente questi aspetti risulti estremamente riduttivo.
Stando a questi fatti, sembra che gli studenti vogliano rivendicare il loro diritto a non essere interpellati, come a dire “se c’è un tema che preferisco tenere lontano da me, nessuno mi può obbligare ad affrontarlo”.
Per capirlo dovremmo immaginare quanto può essere difficile per chiunque affrontare una particolare tematica che, per motivi personali, risulti molto delicata. Una sorta di tasto dolente, qualcosa che non si vuole esternare ma che, anche se si tiene nascosto, a un certo punto ostacola il rapporto con gli altri. Per assurdo, invece di favorire la condivisione di queste difficoltà, si preferisce spingere verso la chiusura, costruirsi la propria bolla e, senza dare spiegazioni, restare nel proprio safe space. In realtà ognuno di noi ha i propri tasti dolenti, grandi o piccoli che siano: tutti possiamo pensare a qualche tematica delicata che preferiamo non affrontare con gli altri. Magari non si tratta di argomenti che vengono trattati quotidianamente nelle nostre lezioni, però quante volte ci capita, in una conversazione, di trattenerci dall’esprimere un giudizio su qualche argomento?
Quante volte preferiamo far finta di niente piuttosto che affrontare apertamente qualcuno di diverso da noi? Di fronte ad una persona estranea e diversa da me ho sostanzialmente due atteggiamenti possibili. Da una parte posso scegliere di ignorare del tutto, quasi negare, la diversità che c’è, ma questo in genere non viene spontaneo, richiede uno sforzo e la conclusione è che ho bisogno di regole precise per capire come comportarmi in ogni situazione. L’alternativa è accettare di essere me stesso e che l’altro sia diverso da me: riconoscere la diversità, senza bisogno di censurarla o di nasconderla, ma anzi accogliendola come una ricchezza e affrontandola con semplice umanità.
Pensando alle persone a cui siamo più legati, è immediato riconoscere che tra di noi non ci sono muri o regole alla conversazione, anzi affinché nasca un’amicizia vera è necessario prima di tutto essere disposti a rompere la bolla propria e altrui. Lo stesso vale quando si affronta un testo o una tematica difficile: solo lasciando andare le protezioni e accettando la fatica, possiamo spingerci al fondo della questione, coglierne tutti gli aspetti e maturare una posizione che sia cosciente e soprattutto che sia davvero nostra.
Tornando al vicino di banco che non hai mai visto prima, quello a cui all’inizio di questo articolo hai osato chiedere “Where are you from?”. Secondo la logica sopra descritta, di fronte a lui non ci sono temi che puoi affrontare con sicurezza, senza correre il rischio di urtare la sua sensibilità. Dovresti pesare il tuo discorso e magari trattenerti dal dire alcune cose. Ma è meglio non dire nulla, avendo la certezza di essere nel giusto, oppure rischiare di dire la cosa sbagliata, cercando un rapporto sincero? È questa l’alternativa di fronte alla quale ci troviamo nei rapporti di ogni giorno, con i compagni di corso, gli amici o i professori. Sta a ognuno scegliere fino a che punto valga la pena di rischiare.