Joker



Joker

Un uomo solo | That’s life

Illustrazione di Camilla Tomasetti

Un uomo solo

Non è una fotografia perfetta, un’interpretazione da oscar o una colonna sonora cucita su misura, ciò che rende un film indimenticabile. Tutto ciò aiuta a veicolare il contenuto, a renderlo universalmente comprensibile, ma il valore di un film, non si svolge durante la proiezione della pellicola. È all’uscita dalla sala cinematografica che si ha la prova di aver visto un’opera d’arte, o un filmetto. Perché la nostra persona si trasforma in un punto interrogativo; accade guardando il Joker di Todd Phillips. Appena scorrono i titoli di coda, la domanda salta inevitabile: ciò che ho visto può accadere solo in un luogo immaginario o anche fuori dallo schermo si può arrivare a vivere questo dramma? Il Joker che ci viene proposto non ha il fascino dello Scarface, il male non ha la sua solita perversa seduzione, è un pugno dritto in faccia, perché viene visto nascere e svilupparsi sin dalle viscere. Nelle due ore del film si vede sempre di più l’eclissi di Fleck, che lentamente si abbandona  al neonato Joker, figlio della rabbia e della tristezza di una vita non vissuta. Fleck è uno qualunque, una vita da mediano, un lavoratore sottopagato, oppresso, sfruttato, un uomo dei nostri tempi, finito a fare il clown di strada, sognando di diventare un comico televisivo, con la battuta sempre pronta. E invece la realtà non gli ha dato questo dono, lui non fa ridere, anzi è penoso, ma  continua ad inseguire questa utopia, non accettando lo stato delle cose. Il Joker è un uomo trasformato in un simbolo, privato della sua verità e guidato dall’istinto, scaturito direttamente dalla tristezza di Arthur, che si è evoluta in una rabbia dirompente, poiché non ha trovato nessuno che potesse guardarla, abbracciarla e accoglierla. L’emblema di questo è la psicologa da cui Arthur va a raccontare la sua vita: “lei non mi ascolta”, le dice, evidenziando che ciò che gli serve non è una terapia, ma uno sguardo, un’amicizia; come viene fuori durante il film, quello nella sua testa, nel rapporto con la vicina di casa. Questa mancanza è ciò da cui il Joker prende forza e si nutre, è ciò che alimenta la violenza distruttiva nata e allattata da una Gotham, teatro dell’homo homini lupus. Tutto questo è perfettamente interpretato da un Joaquin Phoenix smunto, vestito di lividi, ma agile e armonioso nei movimenti quando balla estraniandosi da tutto, a sottolineare il fatto che oramai, il danno è compiuto: ciò che lo rende vivo è nella sua testa e la realtà diventa solo uno spazio dove proiettare la propria idea del mondo. “That’s life”, canta Sinatra di sottofondo, “ogni volta che mi ritrovo schiacciato sulla mia faccia, mi riprendo e torno nella corsa”. Ed è quello che prova a fare Arthur Fleck per tutto il film, ma i suoi sforzi non impediscono l’accadere del Joker. È proprio vero allora che la vita si riduce a  questo? Il nostro tentativo è sufficiente, per riemergere dagli abissi della disperazione?

That’s life

Arthur Fleck è un uomo mentalmente instabile che vive per la madre malata. Ha una vita difficile, è un clown sottopagato che sogna di diventare un grande comico che fa ridere tutti. “Mia madre mi diceva sempre di sorridere e di mettere una faccia felice, mi diceva che ho uno scopo, portare risate e gioia nel mondo”. Sua madre gli ha insegnato ad essere sempre felice e che è bene rendere felice anche gli altri, “Happy” lo chiamava, ma non si è mai preoccupata di accertarsi che lui lo fosse effettivamente. Al contrario, si vede fin dall’inizio del film che il doverismo che si sente addosso gli impedisce di essere se stesso a tal punto da renderlo incapace di piangere e di esprimere la sua tristezza. Al ramo della trama che riguarda le cause della particolare comicità di Arthur si accosta quello della ricerca di una figura a cui appartenere, come quella del “padre”, personaggio sempre stato assente nella storia del protagonista. Questo aspetto è decisivo nella narrazione perché il film prende una svolta proprio nel momento in cui questi due temi si intersecano, ossia quando tutto il dolore che Arthur non riesce a esternare con la sua comicità, e che tenta di coprire con la maschera da clown, incontra il vuoto di senso provocato sia dal presunto tradimento della madre che dalla rinuncia alla ricerca del padre. In questo punto della storia nasce la rassegnazione, nasce Joker. Questo personaggio è totalmente mosso dall’assenza di senso della sua vita e dall’impossibilità di lasciarsi afferrare da qualcuno. “Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente” dice alla psicologa nell’ultima seduta e ancora “Spero che la mia morte abbia più senso della mia vita” scrive nel diario. Joker non viene presentato come un antagonista, è un pazzo, è l’interiorità di Arthur finalmente liberata. La tragicità del film sta nella giustificazione di questa follia. Come poteva non impazzire? “Molte volte ho pensato di farla finita, ma il mio cuore non ci stava ma se non c’è niente che verrà a scuotere questo luglio avvolgerò me stesso in una grande palla e morirò” canta Sinatra nell’ultima scena. Nessuno si salva da solo, c’è bisogno di qualcosa che ci stupisca e ci permetta di vedere oltre il nostro dolore. Da dove si riparte? Dalla domanda, perché chi domanda ha ancora speranza che esista una risposta e finché si spera non si può impazzire. Quel che è mancato ad Arthur è stato qualcuno a cui chiedere, gli è mancata la “figura del padre”, una autorità a cui abbandonarsi e a cui affidare le sue pene e la sua intera vita.

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