NON VOGLIO UN’ALTRA STORIA
Il nostro bisogno di raccontarci e lo storytelling oggi
di A.Lucchi e E. Menna
Circa due mesi prima della distribuzione, il team di Polipo si riunisce per ideare il numero successivo del giornale, mettendo sul tavolo proposte per nuovi articoli. Avevo accettato l’invito di un’amica all’incontro di “pianificazione” senza però nessuno spunto o idea in testa, e mi sono ritrovato quella sera a dover improvvisare qualcosa sul momento. È stato nel mezzo di un intenso brainstorming al tavolo con gli altri che una domanda mi ha travolto. Mi sono chiesto: “Ho davvero qualcosa da dire? Guardandomi dentro, ho davvero qualcosa di rilevante da scrivere? Una storia che valga la pena condividere?”. Non erano interrogativi sorti da qualche presunzione ma dubbi spontanei sulla validità del mio raccontare. Tutti meritiamo di avere una piattaforma da cui farci ascoltare? Ognuno di noi è autorizzato a esibire la propria voce e palesare la propria opinione su qualsiasi argomento? O si rischia di sfociare in un relativismo dilagante? È un diritto in termini di libertà di parola o è anche un dovere dare costantemente un giudizio?
L’espressione “raccontare una storia” può essere sostituita con l’equivalente storytelling. Non serve essere divulgatori, speaker di mestiere o eccezionalmente abili con la penna per fare storytelling, ma un requisito essenziale è che gli ascoltatori devono potersi immedesimare nella storia, relazionarsi e simpatizzare con ciò che viene comunicato.
È interessante come archeologi e antropologi abbiano fatto risalire la genesi dello storytelling alla scoperta del fuoco. Quando i primi uomini sulla Terra impararono ad usarlo secondo i loro bisogni – come riscaldarsi, proteggersi dai predatori, illuminarsi di notte – appresero anche come essere più efficienti, dividendosi le mansioni, riunendosi in gruppi sempre più numerosi, scandendo il tempo secondo ritmi regolari e ottenendo più energia dai cibi che cuocevano. Fu allora che la domesticazione del fuoco gettò le basi per un nuovo contesto di interazioni sociali e culturali: sedendosi attorno alla fiamma i nostri primissimi antenati diedero avvio alla tradizione orale del raccontare storie. E ancora oggi in alcune zone dell’Africa e del Medio Oriente popolazioni e tribù nomadi mantengono viva questa forma primitiva di storytelling riunendosi in luoghi desolati sotto le stelle a tramandare racconti mitici e storie dei loro avi.
Oggi invece lo storytelling ha assunto le forme più variegate, e oltre al campo letterario-artistico, in cui questo ha preso vita e si è sviluppato, sta rivoluzionando anche il marketing e il mondo del lavoro. Dall’ultimo modello di SUV alle cialde del caffè, dal cibo per gatti alla linea di moda di una giovane influencer, lo “storytelling commerciale” è diventato un tutt’uno con il vendere e pubblicizzare. Ma non ha invaso soltanto l’economia: si assiste al maggior quantitativo di storytelling diaristico-individuale grazie ai social, che hanno permesso a tante voci e punti di vista di farsi conoscere, aprendo scorci su realtà anche lontane e poco conosciute. Tuttavia queste app, sebbene nate per agire da supporto e catalizzatore all’instaurarsi di relazioni, riescono facilmente a distorcere la nostra comunicazione. La “narrazione di sé” attraverso i social può evolversi in un surrogato deforme dello storytelling, come miscommunication, disinformazione, truffa, fake news e ambivalenza, per mezzo di un semplice tweet o repost.
Ma perché di fronte alle storie siamo così vulnerabili e facilmente impressionabili? Esiste una spiegazione scientifica: ascoltare o leggere qualsiasi storia ci coinvolge emotivamente perché è simile all’atto di innamorarsi dal punto di vista biologico. Determinate aree del cervello si “illuminano” e nel nostro corpo vengono rilasciati gli stessi ormoni e neurotrasmettitori di quando si sentono le farfalle nello stomaco. Serotonina, endorfine, dopamina e ossitocina iniziano a “circolare” e ci rendono più sensibili e predisposti alla risata, alla concentrazione verso chi racconta, a provare una certa tensione, a “farci viaggi” disegnando nella nostra testa ciò che ci stanno descrivendo e ad essere più generosi e aperti verso chi si sta aprendo con noi.
Il nostro bisogno di sentirsi connessi con altri è naturale e contribuisce al nostro benessere fisico e mentale. Ma vivere “in pubblico” ci spinge continuamente a condividere più di quanto faremmo senza aspettative o pressioni addosso. Mai nella storia dell’uomo abbiamo condiviso così tanto con così tanti e stiamo mettendo a nudo noi stessi in una misura mai sperimentata prima. Condividere contenuti piacevoli – intesi anche come “valevoli di un mi piace” –deriva da un istinto della nostra specie. Ma è altrettanto vitale saper tracciare confini personali e riconoscere una soglia limite. Forse c’è qualcosa di ancora più speciale nella consapevolezza che quello che condivido solo con certe persone, con cerchie ristrette dei miei conoscenti, o anche solo con me stesso, è soltanto per noi, tra me e loro. Forse coltivare una vita privata è tanto prezioso e sacro quanto condividere parte di questa con altri. Forse lo storytelling non è così pericoloso se rimane vero ed autentico. E l’uso che se ne dovrebbe fare è raccontare e raccontarci, di noi e per noi.